Oscar Nomadland

Il trionfo di Nomadland nella notte degli Oscar senza sogni

Gli spazi si dilatano, si restringono. Si “spezzano”. Diventano irrimediabilmente protagonisti di un’insolita 93esima edizione degli Oscar che è costretta a ridefinire le location, a fare i conti con il distanziamento sociale e le mascherine, con collegamenti web oltreoceano che assumono la forma di finestre sul mondo della pandemia. Ma soprattutto è una lunga notte dove anche il cinema sembra essere cambiato: si smette di sognare.

Nell’edizione della pandemia ricca di film duri e senza speranze, vince la pellicola sull’anti-sogno americano della cinese Chloé Zhao con Frances McDormand. Delusione per l’Italia.

 

Gli spazi si dilatano, si restringono. Si “spezzano”. Diventano irrimediabilmente protagonisti di un’insolita 93esima edizione degli Oscar che è costretta a ridefinire le location, a fare i conti con il distanziamento sociale e le mascherine, con collegamenti web oltreoceano che assumono la forma di finestre sul mondo della pandemia. Ma soprattutto è una lunga notte dove anche il cinema sembra essere cambiato: si smette di sognare.

 

Le pellicole sono lontane dalla grande macchina hollywoodiana patinata che abbiamo conosciuto negli anni, pochi effetti speciali, pochi costumi vistosi, nessun orpello. Il cinema si spoglia, si mette a nudo con un dress code più austero, figlio dei tempi, per raccontare storie di emarginazione, di nomadi, di razzismo, di rivalsa, di sconfitta e di speranza. Gli spazi si riducono. Sceneggiature tanto lontane dall’immaginario del regista Federico Fellini, rievocato più volte durante la serata con il suo potere iconografico.

 

Il red carpet si trasferisce dal Dolby Theatre all’ex stazione dei pompieri dell’Union Station di Los Angeles – set di Speed e Blade Runner – dove più che aria di Academy si respira un’atmosfera da cocktail party con colori stonati, ghirlande di fiori disordinate e sfere bianche ciondolanti. In diretta – prima che abbia inizio la cerimonia – spunta anche un’epidemiologa in abiti eleganti che dispensa consigli e raccomandazioni parlando di vaccino gratis per tutti.

 

Una volta entrati la scenografia cambia. Niente poltrone, ma una dimensione più simile ai Golden Globe con tavoli illuminati da lampade soffuse.

Presentatrice Regina King

Entra in scena seguita dai paparazzi con in mano la statuetta la padrona di casa, Regina King. Le riprese sembrano uscite da un film pop con tanto di titoli di testa del cast. Prima che le danze abbiano inizio, l’attrice e candidata agli Oscar per la regia di One night in Miami inizia il monologo parlando di un anno difficile e facendo riferimento all’afro-americano George Floyd ucciso dalla polizia il 25 maggio del 2020 (pochi giorni fa è stato condannato per l’omicidio Derek Chauvin). “Stiamo piangendo la perdita di così tanti, e se le cose fossero andate diversamente la scorsa settimana a Minneapolis? Avrei potuto scambiare i miei tacchi con gli stivali da marcia. Come madre di un figlio nero, conosco la paura con cui convivono in tanti e nessuna fama o fortuna cambia le cose”.

Trionfa Nomadland di Chloé Zhao

A rubare la scena aggiudicandosi tre statuette, miglior film, regia e attrice protagonista c’è Nomadland firmato dall’autrice cinese Chloé Zhao. É la seconda donna a vincere l’ambito premio dopo Kathryn Bigelow per The Hurt Locker nel 2010 e la prima di origine asiatica (è nata a Pechino) che si presenta agli Academy Award con la treccia e le scarpe da ginnastica.

 

É stata premiata dal regista coreano di Parasite Bong Joon-ho in diretta dal Dolby Cinema di Seul e durante la cerimonia di premiazione e ha dichiarato: “Ho pensato parecchio ultimamente a come si fa ad andare avanti quando le cose si fanno dure. Crescendo in Cina con mio papà imparavo testi cinesi, delle poesie, ne ricordo una la cui prima frase dice ‘Le persone alla nascita sono intrinsecamente buone’. Continuo a crederlo anche oggi. Questo Oscar è per tutti quelli che tengono fede alla bontà in sé stessi e negli altri nonostante le difficoltà”. McDormand: “Per favore guardate il film sullo schermo più grande possibile e portate tutti quelli che conoscete a vedere tutti i film premiati quest’anno”. E poi si è messa a ululare “come i nostri lupi”.

Secondo Oscar per Anthony Hopkins

L’attore britannico Anthony Hopkins, premio Oscar nel 1992 per il Silenzio degli Innocenti, si toglie la maschera del serial killer per calarsi nei panni di un uomo malato di Alzheimer in The Father (tratto dall’omonima pièce teatrale) di Florian Zeller. Nella sua casa gli orologi scompaiono, i rubinetti gocciolano, le scene si ripetono, i volti si confondono in un vortice senza fine. Si entra nella testa del protagonista, un sguardo in soggettiva che mostra i dolori della malattia. L’attore non era presente alla cerimonia perché in Galles.

Miglior attrice non protagonista la nonna di Minari

Yoon Yeo-jeong, la dispettosa nonna di Minari, è stata premiata da Brad Pitt con la statuetta della miglior attrice non protagonista, “rubando” l’Oscar a Glenn Close che dopo 8 nomination rimane ancora una volta a mani vuote. L’attrice di 73 anni ha dedicato il premio ai figli e si è complimentata con le attrici in gara dichiarando: “Forse il premio l’avete dato a me per ospitalità. L’avete dato a questa signora coreana”. Il film parla di una famiglia che tra numerose difficoltà e peripezie si stabilisce negli Stati Uniti con il sogno di dare vita ad una piantagione di frutti coreani.

Miglior attore non protagonista Daniel Kaluuya

Ringrazia Dio perché senza la sua guida e la sua protezione non sarebbe lì a calcare il palco dalle tende blu dell’Union Station. L’attore britannico, candidato per il film horror Get out nel 2017, interpreta nel film Judas and the Black Messiah il ruolo di Fred Hampton, leader delle Pantere nere ucciso dall’FBI all’età di 21 anni.

Miglior film straniero Un altro giro

Another Round è forse la vera rivelazione degli Oscar 2021. La pellicola del regista danese Thomas Vinterberg, celebre per essere uno dei fondatori insieme a Lars von Trier della corrente cinematografica Dogma 95, mette in scena la storia di 4 insegnanti di scuola insoddisfatti che decidono di vivere la vita in costante stato di ebbrezza, facendo uso di alcolici e analizzando i loro comportamenti per scrivere un saggio.

 

Il regista è stato premiato da Laura Dern che ha raccontato di quando era bambina: la madre la portava al cinema a vedere La Strada di Fellini (la prima pellicola della storia a vincere nella categoria di miglior film straniero), perché adorava la performance di Giulietta Masina. Il regista si è commosso dedicando la vittoria alla figlia diciannovenne: “Un incidente in autostrada ce l’ha portata via, è stato qualcuno che era concentrato sul cellulare invece che alla guida. Prima di morire mi scrisse una lettera: aveva letto il copione ed era emozionata. Doveva essere parte del film. Ora è qui, la immaginiamo a festeggiare con noi. Forse hai fatto qualcosa dall’alto per realizzare questo miracolo”.

Miglior animazione Soul

Il premio per l’animazione è stato assegnato da Reese Witherspoon al cortometraggio If anything happens I love you e al lungometraggio Disney Soul di Pete Docter, già premiato col l’Oscar per Up e Inside out. “Questo film è una lettera d’amore per il jazz, come il jazz non possiamo controllarlo ma possiamo trasformarlo in qualcosa di bello. Vorremmo ringraziare tutti gli insegnanti di musica e arte nel mondo”. Sono stati premiati per la colonna sonora Trent Reznor e Atticus Ross che erano nominati per due film, Mank e Soul. La statuetta l’hanno presa per il film d’animazione e condivisa con Jon Batiste. Che ha detto “Dio ci ha dato dodici note, le stesse Duke Ellington e Bach, ogni dono è speciale”.

Miglior documentario My Octopus teacher

Nel linguaggio dei segni l’attrice Marlee Matlin ha annunciato come miglior documentario Il mio amico in fondo al mare di James Reed e Pippa Ehrlich, l’amicizia tra un documentarista e un polpo. Ha inoltre premiato come cortometraggio documentario Colette di Anthony Giacchino e Alice Doyard, il racconto di una donna che ha perso il fratello in un campo di concentramento e decide di ritornare su quei luoghi dopo 75 anni.

Miglior cortometraggio

Due estranei (Two Distant Strangers) è un cortometraggio di Travon Free e Martin Desmond Roe che racconta la storia di un fumettista nero che, dopo aver trascorso la notte con una giovane donna, non riesce a tornare a casa dal suo cane perché viene bloccato da un poliziotto bianco in un loop temporale senza fine. “I can’t breath” recita il protagonista (Joey Badass), frase che ricorda quella pronunciata da George Floyd.

Miglior sceneggiatura

A vincere come miglior sceneggiatura originale Una donna promettente di Emerald Fennell, e The Father (miglior sceneggiatura non originale di Christopher Hampton e Florian Zeller (la moglie durante il collegamento entra in scena e dà un bacio al marito).

Miglior montaggio Sound of Metal

Il premio è andato a Mikkel E.G. Nielsen per il montaggio di Sound of Metal, la vita del giovane batterista di un duo metal, Ruben Stone (Riz Ahmed), che inizia improvvisamente a perdere l’udito e si rifugia in una comunità per sordomuti.

Effetti speciali

Come miglior effetti speciali non poteva non vincere Tenet di Christopher Nolan: un mondo distopico dove passato e presente si confondono e dove il tempo non è più lineare.

Niente Oscar per Pinocchio, Laura Pausini e Processo ai Chicago 7

Grande delusione per l’Italia che ha visto la débâcle per l’Oscar ai costumi di Pinocchio realizzati da Francesco Pegoretti, Mark Coulier e Dalia Colli e Massimo Cantini Parrini, a favore di quelli di Ma Rainey’s Black Bottom (dimenticano l’Oscar sul palco), e per la canzone Io sì (Seen) di Laura Pausini nel film di Edoardo Ponti La vita davanti , battuta da H.E.R. (con il brano Fight For You da Judas and the Black Messiah). Rimane a bocca asciutta anche Processo ai Chicago 7 diretto da Aaron Sorkin con sei candidature.

Miglior scenografia e fotografia a Mank

Miglior scenografia di Donald Graham Burt e fotografia di Erik Messerschmidt per Mank, il film in bianco e nero di David Fincher sulla vita dello sceneggiatore Herman J. Mankiewicz (Gary Oldman) durante la stesura della sceneggiatura di Quarto potere (1941) di Orson Welles.

 

Di Francesca Saccenti

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